Unione civile e matrimonio
Dopo un lungo dibattito, caratterizzato da una forte contrapposizione tra diverse ideologie, è stata approvata la legge destinata a regolamentare le unioni civili, in vigore dal 5 giugno 2016.
Accanto alla famiglia inizialmente delineata dal codice civile, composta da due coniugi di sesso diverso, la legge ha introdotto l’unione civile tra persone dello stesso sesso, regolata in modo analogo al matrimonio, con l’unica differenza della mancata previsione dell’obbligo di fedeltà (legge 20 maggio 2016, n. 76, nota anche come legge Cirinnà).
Il richiamo quasi integrale delle norme che regolano il matrimonio fa sì che, di fatto, il legislatore abbia introdotto nel nostro ordinamento il matrimonio tra persone dello stesso sesso, tuttavia si è deciso di mantenere una differenza terminologica, parlando di “unione civile”, per sottolineare una differenza che, nella disciplina legislativa, appare molto tenue.
La legge infatti equipara al vincolo giuridico derivante dal matrimonio quello prodotto dalle unioni civili, stabilendo che, fatte salve le previsioni del codice civile non richiamate espressamente, e quelle della legge sull'adozione (legge 4 maggio 1983, n. 184), “le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole "coniuge", "coniugi" o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché́ negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso.”.
L’unione civile tra persone dello stesso sesso
Due persone maggiorenni dello stesso sesso possono costituire un'unione civile mediante dichiarazione di fronte all'ufficiale di stato civile, alla presenza di due testimoni.
L'ufficiale di stato civile provvede alla registrazione degli atti di unione civile tra persone dello stesso sesso nell'archivio dello stato civile. A tal fine, il governo deve adeguare le norme sull’ordinamento dello stato civile, ma anche quelle di diritto internazionale privato, per consentire il recepimento dei matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso.
Sono cause impeditive della costituzione di un'unione civile tra persone dello stesso sesso la sussistenza, per una delle parti, di un vincolo matrimoniale o di un'altra unione civile; l'interdizione di una delle parti per infermità di mente; la sussistenza tra le parti dei rapporti di parentela o affinità che impedirebbero il matrimonio, come indicati dall’art. 87, primo comma, del codice civile; la condanna definitiva di un contraente per omicidio consumato o tentato nei confronti di chi sia coniugato o unito civilmente con l'altra parte.
Le parti possono stabilire, con dichiarazione all'ufficiale di stato civile, di assumere, per la durata dell'unione civile, un cognome comune, scegliendolo tra i loro cognomi. La parte può anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso, facendone dichiarazione all'ufficiale di stato civile.
Con la costituzione dell'unione civile le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dall'unione civile deriva l'obbligo reciproco all'assistenza morale e materiale e alla coabitazione, ma non è previsto l’obbligo di fedeltà, che contraddistingue invece il matrimonio. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni.
Le parti concordano tra loro l'indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune, e a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l'indirizzo concordato.
Il regime patrimoniale nell’unione civile
Il regime patrimoniale dell'unione civile tra persone dello stesso sesso, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, è costituito dalla comunione dei beni, che è regolata esattamente come nel matrimonio, mediante rinvio alle stesse norme del codice civile.
Anche per le unioni civili è prevista la possibilità di stipulare, davanti al notaio, una convenzione matrimoniale per scegliere il regime della separazione dei beni, oppure la comunione convenzionale, e per costituire un fondo patrimoniale.
L’impresa familiare nell’unione civile
L’impresa familiare nasce come strumento di tutela dei familiari che collaborano nell’attività dell’impresa, nei confronti dell’imprenditore, in mancanza della formalizzazione di un diverso rapporto giuridico.
Oggi, però, l’impresa familiare è anche fonte di importanti vantaggi sul piano fiscale, poiché consente di ripartire il reddito tra l’imprenditore e i collaboratori, approfittando così di aliquote Irpef ridotte, a condizione che la presenza dell’impresa familiare sia formalizzata davanti al notaio.
La partecipazione all’impresa familiare era inizialmente riservata al coniuge dell’imprenditore (oltre che ai figli, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo grado), è stata estesa all’unito civilmente.
L'art. 1, tredicesimo comma, della legge 20 maggio 2016, n. 76 rende infatti applicabili alle unioni civili tutte le disposizioni contenute, tra l’altro, nella sezione VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile, e pertanto l'art. 230-bis del codice civile, che disciplina l’impresa familiare. Per effetto di questo richiamo, il soggetto unito civilmente all'imprenditore gode degli stessi diritti e delle stesse tutele previste a favore del coniuge nell'ambito dell'impresa familiare.
La figura dell'impresa familiare, introdotta nel nostro ordinamento con la riforma del diritto di famiglia nel 1975, ricorre automaticamente quando un familiare presta in modo continuativo la propria attività di lavoro nell'impresa, garantendo così ai familiari una specifica tutela nei confronti dell’imprenditore.
Il lavoro prestato può essere di varia natura, ma deve riguardare l'attività di impresa. La giurisprudenza, infatti, ha precisato che il lavoro esclusivamente casalingo non costituisce titolo sufficiente per la partecipazione all'impresa familiare.
I diritti dei familiari che collaborano nell’attività dell’impresa sorgono direttamente dalla loro prestazione di lavoro, anche in mancanza di accordi. Secondo il codice civile, non è necessario, dunque, uno specifico atto costitutivo dell'impresa familiare.
L’atto costitutivo è però indispensabile al fine di godere dei vantaggi fiscali dell’impresa familiare.
Le norme fiscali richiedono, infatti, che la costituzione dell'impresa familiare risulti da atto pubblico o scrittura privata autenticata da un notaio anteriore all'inizio del periodo d'imposta.
L'impresa familiare è stata tradizionalmente adottata nell'esercizio di attività commerciali (tipicamente, per la gestione di negozi, bar e ristoranti), ma può essere applicata anche alla gestione delle imprese agricole, le quali in precedenza adottavano spesso la forma della comunione tacita familiare, oggi ricondotta alla forma della società semplice.
La partecipazione all'impresa è ammessa solo per i familiari più stretti dell'imprenditore, specificamente indicati dalla legge: il coniuge (o unito civilmente), i parenti entro il terzo grado (figli o discendenti, fratelli, zii e nipoti, nonni e bisnonni) e gli affini entro il secondo grado (cognati, suoceri, generi e nuore).
Restano fuori dall’ambito di applicazione dell’impresa familiare, però, i parenti entro il secondo grado dell'unito civilmente all'imprenditore, perché questi sono affini dell'imprenditore in caso di coniugio, ma non nel caso di unione civile, poiché la legge Cirinnà non ha previsto l’estensione alle unioni civili del vincolo di affinità di cui all'art. 78 del codice civile. Si tratta probabilmente di un difetto di coordinamento, che tuttavia potrà essere corretto solo dal legislatore.
Una disciplina specifica è stata invece introdotta per il convivente di fatto che collabora all’impresa del partner (art. 230-ter del codice civile, introdotto dall’art. 1, comma 46, della legge 20 maggio 2016, n. 76).
Nonostante la partecipazione dei collaboratori, l'impresa familiare resta un'impresa individuale. Ciò significa che l'imprenditore rimane l'unico responsabile per le obbligazioni assunte nei confronti dei terzi, e pertanto può prendere da solo tutte le decisioni relative alla gestione ordinaria dell'impresa.
I collaboratori hanno diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipano agli utili dell'impresa e agli incrementi dell'azienda (per quanto riguarda sia i beni acquistati sia l'avviamento) in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato.
Il diritto di partecipazione agli utili e agli incrementi dell’impresa familiare è intrasferibile, a meno che il trasferimento avvenga a favore di familiari che possono partecipare all’impresa familiare, col consenso di tutti i partecipanti. Questo diritto può essere liquidato in danaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione del lavoro nell’impresa, e in caso di alienazione dell'azienda. Il pagamento può avvenire in più annualità che, in difetto di accordo, sono determinate dal giudice.
Le decisioni relative alla gestione straordinaria dell'impresa, agli indirizzi produttivi, alla destinazione degli utili e alla cessazione dell'impresa sono adottate dai familiari che partecipano all'impresa a maggioranza, che viene calcolata "per teste", cioè con un voto per ciascuno, indipendentemente dall'entità della sua partecipazione. Per le delibere non è richiesta alcuna particolare formalità.
In caso di cessione dell'azienda da parte dell'imprenditore, o di divisione ereditaria, i collaboratori hanno il diritto di prelazione.
Dal punto di vista fiscale, l'impresa familiare rappresenta un metodo efficace per dividere il reddito tra più soggetti, riducendo così l'aliquota applicata per le imposte dirette.
Infatti, fermo restando che l'imprenditore deve conseguire almeno il 51% del reddito, la parte rimanente viene attribuita ai collaboratori in base alla quantità e qualità del lavoro prestato in modo continuativo e prevalente, secondo le quote indicate nella dichiarazione dei redditi.
Ricordiamo però che le norme fiscali richiedono che la costituzione dell'impresa familiare risulti da atto pubblico o scrittura privata autenticata da un notaio prima dell'inizio del periodo d'imposta (art. 5, comma 4, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, Testo Unico delle Imposte sui Redditi).
La legge dispone infatti che i redditi delle imprese familiari, limitatamente al 49 per cento dell'ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell'imprenditore, sono imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell'impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili, a condizione che:
a) i familiari partecipanti all'impresa risultino nominativamente, con l'indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l'imprenditore, da atto pubblico o scrittura privata autenticata anteriore all'inizio del periodo di imposta, recante la sottoscrizione dell'imprenditore e dei familiari partecipanti;
b) la dichiarazione dei redditi dell'imprenditore rechi l'indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l'attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell'impresa, in modo continuativo e prevalente, nel periodo di imposta;
c) ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell'impresa in modo continuativo e prevalente.
Unione civile e successione a causa di morte
Nell’ambito della successione per causa di morte, alle parti dell’unione civile sono riconosciuti gli stessi diritti spettanti ai coniugi. All’unito civilmente spetta sempre una quota dell’eredità (da un terzo all’intero, in base alla presenza o meno di figli o altri parenti stretti), anche in mancanza di testamento, ed egli è inoltre tutelato dal diritto di legittima, ovvero il diritto di ricevere una quota minima di eredità (variabile da un quarto a un mezzo) anche in presenza di un testamento che dispone a favore di altri, o di precedenti donazioni che lo danneggiano.
Dopo la morte di una delle parti dell’unione civile, l’altra ha il diritto di abitare per tutta la vita nella casa in cui la coppia risiedeva, se di proprietà̀ del defunto o di entrambi. Ha inoltre diritto alle indennità̀ previste per il decesso del lavoratore dipendente, e di subentrare nel contratto di locazione abitativa stipulato dal defunto.
Anche nella scelta dell'amministratore di sostegno il giudice tutelare deve preferire, ove possibile, la parte dell'unione civile tra persone dello stesso sesso.
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